La storia di Giorgio Perlasca, il commerciante che si finse diplomatico per salvare cinquemila ebrei ungheresi

Tre oggetti a casa Perlasca spiegano ciò che è così difficile da rendere a parole: una tazzina, un cucchiaino e un medaglione. Éva Láng li aveva portati all’uomo che l’aveva salvata, in un sabato di settembre del 1987. Erano gli unici oggetti che era riuscita a conservare nell’inferno di Budapest. «Li prenda lei, aveva detto a mio padre. Lui, dopo aver cercato invano di convincerla a tenerli, li prese. Da lì capimmo tutto». Franco Perlasca è l’unico figlio di Giorgio Perlasca e Romilda Del Pin. «Sono nato quasi per caso nel 1954 – ironizza –, ma forse più che al caso penso che ci sia un destino in fondo». Franco, infatti, venne al mondo quando suo padre aveva già 44 anni: «Una cosa rara negli anni Cinquanta, quasi singolare». Fino al 1987 nessuno in famiglia era a conoscenza dell’attività di Giorgio Perlasca durante la Seconda guerra mondiale. «C’era solo un memoriale, riprodotto in tre copie. Una per il Governo italiano, una per l’ambasciata spagnola e una per se stesso, custodita quest’ultima gelosamente in un cassetto». E infine l’incontro rivelatore di quel sabato settembrino: «Combinazione ero a casa dei miei genitori – prosegue Franco –: ero già sposato. Suonarono alla porta due signori: erano Pál Láng e Éva Láng, nata Königsberg. Ci furono attimi di intensa commozione. Noi non capivamo». Giorgio Perlasca: un uomo nella buferaNel 1943 l’Europa era in guerra. Giorgio Perlasca si trovava a Budapest, come incaricato d’affari con lo status di diplomatico per comprare carne per l’Esercito italiano. L’8 settembre l’Italia firmò l’armistizio e per Perlasca iniziarono i guai. Rifiutando di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, venne internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici. Ma fino alla primavera del 1944 a Budapest la vita trascorreva tranquilla. La nazione magiara, guidata dall’ammiraglio Miklós Horthy, era a fianco della Germania e nella capitale si viveva bene, molto meglio che in altre città europee. Pure la comunità ebraica magiara, una delle più antiche e numerose d’Europa, era al riparo dalla follia nazista. Anche se il regime di Horthy aveva mostrato ostilità nei confronti dei semiti e, dallo scoppio del conflitto, i cittadini ebrei dai 22 anni in avanti dovevano prestare servizio nei “Battaglioni di lavoro” in abiti civili e un collare al braccio che li identificasse come tali. Nel marzo del 1944 i tedeschi, temendo che l’Ungheria seguisse l’esempio dell’Italia, misero in atto l’Operazione Margarethe, l’occupazione militare del paese. E con i nazisti iniziarono le deportazioni: Adolf Eichmann e le sue SS coordinavano, gli Ungheresi eseguivano. Iniziava una delle fasi dello sterminio più crudeli del conflitto. A Budapest intanto si organizzavano le terribili “Croci Frecciate”, milizie del partito filonazista Nyilaskeresztes. In questo quadro Perlasca, intanto fuggito dalla prigionia, iniziò a collaborare con Sanz Briz, l’Ambasciatore spagnolo che, assieme alle altre potenze neutrali presenti — Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano —, stava già rilasciando salvacondotti per proteggere i cittadini ungheresi di religione ebraica. Le avventure di Perlasca raccontate da suo padre«Dall’incontro del 1987 iniziammo a ricostruire le trame della storia di mio padre – racconta Franco –. La morte in Ungheria era dietro l’angolo, ma c’era così tanto da fare che non c’era tempo per la paura». Giorgio Perlasca collaborò con un altro diplomatico “fittizio”, Raoul Wallenberg, mentre a Budapest la situazione si faceva sempre più pericolosa. Nell’ottobre del 1944 i nazisti misero in atto l’Operazione Panzerfaust: nazisti e Croci Frecciate presero definitivamente il controllo della capitale, con le truppe sovietiche alle porte. Ferenc Szálasi, leader dei Nyilas, fu nominato Nemzetvezető, Duce. «Gli ebrei venivano sistematicamente rapiti dalle case protette. Tanti furono condotti sulle rive del Danubio, spogliati e legati a due a due. Le Croci Frecciate sparavano a uno dei malcapitati, l’altro veniva trascinato nei fondali ghiacciati del fiume. Mio padre, durante queste razzie, andava dai miliziani, fingendosi Jorge Perlasca, console spagnolo, per difendere in ogni modo i perseguitati». A fine novembre Sanz Briz aveva infatti deciso di lasciare Budapest per non riconoscere il governo filo nazista di Szálasi. Perlasca aveva finto di prendere il suo posto, con l’unico scopo di proteggere gli ebrei. «Un giorno mio padre strappò due gemelli dalla deportazione alla stazione Est e vide da vicino Eichmann che, per evitare ritardi con i treni, rinunciò a recuperare i due bambini. Nel 1990 li incontrò a Washington». Giusto fra le nazioniDal 1987 la storia di Giorgio Perlasca venne alla luce: «Comitive di persone arrivavano per conoscere l’uomo che le aveva salvate». Tra i tanti Giorgio Pressburger. «Un incontro era una storia». Il 23 settembre 1989 fu insignito da Israele del riconoscimento di Giusto tra le Nazioni. Oggi la Fondazione Giorgio Perlasca realizza oltre settanta incontri l’anno, perché nulla di questa storia sia dimenticato.

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