Chi era Navalny, il ragazzo della porta accanto che sbeffeggiava il potere (parlando ai russi del futuro)

chi era navalny, il ragazzo della porta accanto che sbeffeggiava il potere (parlando ai russi del futuro)

Una foto di Navalny, scattata l’11 gennaio durante un collegamento dal carcere siberiano dove’era rinchiuso (Afp)

A rrivano alla spicciolata e si mettono in coda. Almeno per una volta, i poliziotti delle Forze speciali che presidiano la piazza della Lubjanka, è come se non ci fossero. I moscoviti depongono fiori, qualche lumino, ai piedi della Pietra Solovetskij, giunta fin qui dal primo Gulag della storia dell’Urss. Era la primavera del 1990, quando quel masso divenne il monumento alle vittime della repressione sovietica. Quello dei moscoviti e degli abitanti di altre grandi città russe che hanno fatto lo stesso, quando la Polizia non lo ha impedito, è un gesto politico.

Perché rappresenta l’eredità che Aleksei Navalny lascia dietro di sé. Era nato nel 1976, figlio di un tecnico militare e di una funzionaria di Stato, cresciuto in una guarnigione sperduta tra le campagne fuori dalla capitale. L’anagrafe ha la sua importanza. È stato il prodotto delle speranze tradite degli anni Novanta. Lui, infatti, si è sempre rivolto a quella generazione, rappresentata da sua figlia Dasha, che ha trascorso almeno la parte adulta della sua vita con Vladimir Putin. A chi al massimo aveva un vago ricordo dell’epoca sovietica, e non vagheggiava un ritorno alla potenza perduta.

All’inizio è il ragazzo della porta accanto, dal sorriso e del curriculum occidentali. Si laurea in legge all’Università dell’Amicizia fra i Popoli, il più internazionale degli atenei sovietici. Proprio gli studi a Yale quale membro del «Greenberg World Fellows», un programma creato nel 2002 per il quale venivano selezionati su scala mondiale potenziali «leader globali», gli varranno in patria una prima incriminazione come agente straniero e presso alcuni media dello stesso Occidente il sospetto di esserlo davvero.

A quel tempo, è già iscritto al partito di ispirazione liberale Yabloko, dove la sua dichiarata trasversalità è mal tollerata. Si dichiara apolitico, né di destra né di sinistra, disponibile a stare con chiunque purché contro Putin. L’importante è erodere il potere dal basso, consumarlo in ogni modo. La richiesta di autorizzare nel nome della convivenza pacifica la Marcia russa, una manifestazione dai contenuti xenofobi, gli vale la scomunica da parte dei liberali. Si mette in proprio. Risalgono al biennio 2006-2008 i video che lo ritraggono mentre balla tra manifesti di terroristi ceceni e immagini di armi da guerra. Insieme alla sua benedizione all’intervento russo in Georgia, verranno usati dal Cremlino per sussurrare all’esterno una accusa di nazionalismo che convincerà persino Amnesty International a privarlo dello status di prigioniero di coscienza.

Sono peccati di gioventù e di un personaggio ancora in cerca d’autore, dai quali rinsavisce ben presto. Il suo presunto supporto all’annessione della Crimea avvenuta nel 2014 è invece legato a una sola frase, «non si tratta di un panino al prosciutto che prima si prende e poi si restituisce», che era risposta di realpolitik alla domanda di un intervistatore se fosse possibile restituire quella penisola all’Ucraina.

Il tentativo di ridurlo a macchietta nazionalista rivela un certo timore da parte delle autorità. Navalny dimostra fin da subito di essere un pericolo reale. Alle elezioni parlamentari del 2011, quando la sua carriera di nemico pubblico numero uno del Cremlino era appena agli inizi, aveva infatti impedito a Russia Unita, il partito putiniano, di arrivare all’agognato cinquanta per cento. Alle manifestazioni del 2012 contro la staffetta presidenziale tra Dmitry Medvedev e Putin, incita i passanti a unirsi ai cortei: «Non rimanete fermi come dei mufloni». Pubblica video con slogan capaci di «bucare», come il celebre «Putin nonno nel bunker», che al tempo stesso si fa beffe dello spirito imperialista dello zar e denota la sua assenza di timore nei confronti di un avversario molto più forte di lui.

La sua unica arma è un iPhone, che usa come nessun altro prima d’ora. I suoi video di denuncia accumulano milioni di viste. Navalny intuisce che il grimaldello capace di aprire le porte dell’indignazione di un Paese assopito ma povero, sono la ricchezza e la corruzione degli uomini che lo governano. Comincia la stagione delle grandi inchieste condotte dal suo gruppo, composto rigorosamente da under 30.

Nessuno più di lui riuscirà a far male al sistema di potere putiniano, incrinandone l’immagine. Commette il sacrilegio di mostrare il palazzo segreto di Putin a Sochi, ne irride il proprietario facendo portare in manifestazione migliaia di scopini del water comprati al discount, che evocano quelli placcati oro scovati nella residenza presidenziale. Lo zar ha capito da tempo di essere al cospetto della sua nemesi, capace di parlare all’unica fascia di pubblico a lui interdetta. I giovani, i russi del futuro. La legge ad personam del 2019 che proibisce la candidatura alle persone che hanno risieduto all’estero, è quasi una certificazione.

Intanto, dal 2011 al 2018, Navalny ha già ricevuto dieci condanne per i reati più disparati. L’ultimo capitolo di questa ennesima tragedia russa è di pubblico dominio. L’avvelenamento, l’agonia, la scelta di tornare in Russia, il carcere. Nonostante l’esilio in Siberia, Navalny era molto più presente di tanti presunti oppositori a piede libero. La sua strategia del «tutti tranne Putin» per elezioni presidenziali del prossimo 15-17 marzo stava nuovamente mettendo in difficoltà il Cremlino.

Faceva ancora paura. «Sono sulla parte più nera della lista nera» diceva di sé stesso. Aleksei Navalny ha combattuto una lotta impari, ben sapendo quale sarebbe stata l’inevitabile conclusione. Così muore un eroe russo. Così vivrà il suo esempio.

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