L’impero di Putin e il patto col popolo senza vie d’uscite. Il futuro di Mosca? Non c’è speranza
Due giorni dopo la tragica fine di Aleksei Navalny, si comincia a capire perché l’ordine di farlo tacere per sempre sia arrivato adesso. I motivi sono essenzialmente due. Il primo è la percezione che Putin ha, in questa fase, di divisione del fronte occidentale rispetto alla guerra di aggressione russa all’Ucraina: e quando Putin vede debolezza, per lui è il momento giusto per compiere crimini esecrabili senza correre troppi rischi. Il secondo è l’avvicinarsi delle presidenziali russe del 15 marzo: Putin temeva l’avverarsi della minaccia di Navalny, che aveva chiesto come gesto dimostrativo di presentarsi in massa ai seggi a un’ora prestabilita (mezzogiorno) per dimostrare l’esistenza e il peso di un’opposizione a Putin altrimenti imbavagliata dall’assenza forzata di oppositori veri. Il suo omicidio è una risposta feroce e minacciosa: un «non provateci neanche».
Davanti a tutto questo, in assenza di uomini all’altezza di raccogliere il testimone lasciato da Navalny, la domanda è: la Russia che vuol essere libera ha speranze? Il giorno in cui Putin non ci sarà più, l’oppressione finirà? La risposta, amarissima, è: verosimilmente no. E la chiave sta più nel rapporto perverso del popolo russo con il potere che nella forza degli uomini che lo tengono stretto nelle loro mani.
Le radici del potere ormai assoluto di Vladimir Putin affondano in quegli anni Novanta in cui il gruppo fedele al suo predecessore Boris Eltsin (la cosiddetta Famiglia) tradì l’acerba democrazia russa con la sua corruzione e l’incapacità di gestire la complessa eredità dell’Unione Sovietica. I russi, abituati alla predicazione dell’invidia sociale e a uno Stato onnipotente che negava libertà in cambio di una stabilità stracciona, assistettero sgomenti all’improvviso arricchirsi di un’élite spregiudicata di affaristi legata al nuovo potere e presto si convinsero che la democrazia fosse davvero (come predicavano da decenni i comunisti, alle cui ricette però dopo Gorbaciov non credeva più nessuno) un inganno. Per questo si consegnarono a un nuovo zar, a un autocrate che nell’eterno ripetersi della tragedia russa prometteva stabilità e benessere in cambio della rinuncia alle libertà civili. Nel marzo 2000 votarono volentieri per l’oscuro Putin, che fin da subito aveva chiarito la sua ricetta di Stato forte e che appena entrato al Cremlino la applicò, chiudendo televisioni e giornali non allineati, perseguitando e uccidendo i primi critici e oppositori. Era lo Stato dei «siloviki», degli uomini del suo Kgb che tornavano al potere dopo aver ripudiato l’ideologia marxista. E alla maggioranza dei russi andava benissimo così: per loro era il momento di godere finalmente di un po’ di benessere, dopo generazioni vissute tra miserie e privazioni. Della libertà si poteva fare a meno, era un lusso da ricchi. Putin in realtà ha mantenuto il patto diabolico stretto con il popolo russo. Dopo aver arricchito enormemente se stesso e i suoi accoliti, gli ha dato relativo benessere grazie alla vendita all’estero di gas e petrolio a prezzi altissimi per anni; ha ricostruito uno Stato autoritario che aggredisce i vicini nel nome del diritto presunto della Russia a riprendersi il suo impero europeo – e sa Dio quanto ai russi piaccia bullizzare i loro vicini, che infatti li temono e li odiano; ha liquidato senza pietà i nemici interni. Solo una minoranza di cittadini si oppone a tutto questo e aveva trovato in Aleksei Navalny il suo eroe. Morto lui, resta il tallone duro del dittatore ammiratore di Stalin, che porterà la Russia (e noi con essa) a un destino di guerra, tanto più probabile quanto più ci mostreremo deboli e remissivi per sfuggirgli.
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